Dopo essersi affermata come uno dei protagonisti assoluti nel mercato degli smartphone, Google punta a rafforzare il rapporto con la propria community permettendo ai fan più fedeli di provare in anteprima i futuri telefoni Pixel. L’iniziativa, tuttavia, è riservata esclusivamente agli utenti statunitensi.
Una partnership nascosta dietro AppCloud sui Galaxy di fascia media e bassa
Quella che doveva essere una piccola leva per aumentare i margini si è trasformata in un caso di pubbliche relazioni. Sugli smartphone Samsung Galaxy delle serie A, M e F viene infatti preinstallato il software AppCloud. Di per sé, un nome generico che non lascia intuire nulla di preoccupante. Il problema nasce quando si scopre chi c’è dietro: ironSource, azienda ben nota per pratiche considerate piuttosto aggressive nel mondo del software.
Sappiamo che i modelli di fascia bassa e media garantiscono profitti molto ridotti e che i produttori cercano spesso di compensare con partnership software discutibili o integrazioni pubblicitarie. Con AppCloud, però, Samsung sembra aver superato il limite, spingendosi in un’area in cui la tutela dell’utente passa chiaramente in secondo piano.
Secondo quanto riportato da Android Headlines, il problema riguarda milioni di utenti. Se possedete un Galaxy A, M o F – le famiglie di prodotti più diffuse – è molto probabile che AppCloud sia già attivo in background. Ufficialmente “suggerisce” applicazioni da installare. In pratica, si comporta come un canale pubblicitario di terze parti, con permessi estesi che vengono concessi senza un consenso realmente informato.
Il ruolo di IronSource e i rischi per la privacy degli utenti
Il punto critico è che AppCloud non è sviluppato da Samsung, ma è una soluzione firmata ironSource. Per chi segue il settore della sicurezza informatica, il nome non è nuovo. Prima di diventare uno dei grandi attori della “monetizzazione delle app”, l’azienda era conosciuta per InstallCore, una piattaforma di distribuzione software spesso classificata come PUP (Programma Potenzialmente Indesiderato), che ha causato problemi per anni agli utenti Windows e Mac.
Oggi, Samsung affida a questo partner l’accesso diretto ai suoi telefoni. AppCloud dispone infatti di permessi di sistema molto elevati: accesso completo alla rete, possibilità di scaricare file senza preavviso e presenza permanente sul dispositivo, essendo integrato a livello di sistema.
Il punto più critico è che non è possibile rimuoverlo in modo semplice. A differenza di molte app preinstallate – come Facebook o Netflix – che si possono disattivare o eliminare, AppCloud è trattato come un componente di sistema:
- non può essere disinstallato con le normali procedure;
- spesso si riattiva dopo gli aggiornamenti di One UI anche se l’utente lo ha disabilitato;
- per rimuoverlo davvero è necessario effettuare il root del dispositivo – perdendo garanzia e servizi come Samsung Pay – oppure utilizzare i comandi ADB da PC per forzarne la cancellazione.
Chiedere agli utenti di dover ricorrere alla riga di comando per eliminare quello che, di fatto, è un adware su uno smartphone da 300 o 400 euro è un segnale evidente di quanto il compromesso si sia spinto oltre il ragionevole.
Un modello di business che mina la fiducia nel marchio Samsung
La motivazione alla base di questa scelta è puramente economica: ironSource paga per essere preinstallata, e su un Galaxy A55 o su modelli ancora più economici ogni euro supplementare contribuisce a mantenere il prezzo aggressivo senza rinunciare al margine. In altre parole, sono i dati degli utenti e lo spazio sullo schermo a finanziare una parte dell’hardware.
Negli ultimi giorni si sono diffuse sui social voci secondo cui Cina o Brasile avrebbero vietato Samsung a causa di questo presunto “spyware”. Si tratta di informazioni infondate: al momento non esistono prove di alcun divieto ufficiale legato ad AppCloud. Il software è certamente un adware molto invasivo e rappresenta un serio problema per la privacy, ma non è uno strumento di sorveglianza di stato in senso stretto. Non è necessario ricorrere a scenari geopolitici estremi per criticare una pratica commerciale chiaramente discutibile.
Il vero nodo è la fiducia. Chi acquista un Galaxy lo fa anche per il livello di sicurezza garantito da Knox e per la promessa di aggiornamenti software regolari per quattro o cinque anni. L’integrazione di un componente come AppCloud rischia di compromettere questa immagine per pochi dollari di entrata aggiuntiva per unità venduta.
Per il momento, l’unico consiglio pratico per chi possiede un modello interessato è di accedere alle impostazioni, cercare AppCloud e revocare tutte le autorizzazioni possibili, limitandone il più possibile l’impatto. Resta però un dato di fatto: trattare i clienti come semplici spazi pubblicitari ambulanti non è una strategia sostenibile per un marchio che vuole essere percepito come affidabile.